La Dr. Pepper, terza bibita in potenza sul mercato americano, insidia Coca-Cola e Pepsi. Un caso decisamente particolare…
Avere centotrentasette anni ed essere ancora sulla cresta dell’onda non è cosa da tutti. Niente di male se, per qualche periodo, ci si prenda una pausa. A patto che non duri troppo però.
Discorsi fuori portata per qualsiasi essere umano ma, di sicuro, non per un prodotto re del mercato come la Coca-Cola. Bibita gassata per eccellenza, nonostante fosse stata concepita come elisir per ragioni terapeutiche, inevitabilmente legata all’ambito del fast food ma apprezzata anche per il consumo domestico. Nonché, negli anni, più volte al centro di dibattiti sul suo reale impatto sull’organismo umano. Niente che, a ogni modo, ne abbia scalfito la rilevanza sul mercato, di fatto monopolizzato nonostante la crescente spinta della concorrenza, soprattutto in termini di prezzi. Un predominio confermato dai numeri, anche recenti: nel terzo trimestre del 2022, le vendite nette della Coca-Cola erano state protagoniste di un rally da 11,05 miliardi, frutto di un aumento del 10%. Con previsioni di crescita comprese tra il 6% e il 7% per i mesi successivi, con crescita organica del 15% circa.
Probabilmente una previsione troppo ottimistica. Se non altro sul mercato statunitense, terreno di casa della Coca-Cola. Va detto che il mercato delle bibite è, di per sé, estremamente mutevole e soggetto, più che al gusto effettivo delle bevande, al successo di una determinata campagna di marketing. E Coca-Cola lo sa bene visto che, negli anni Ottanta, la pubblicità perseverante della Pepsi riuscì a convincere i consumatori a preferire la cola di Caleb Bradham a quella di John Pemberton, di poco più “anziana”. Lo storico sorpasso in termini di vendite, passato alla storia come “guerra della cola” fu sovvertito qualche anno dopo, quando la Coca-Cola si convinse a rinnovare il proprio prodotto con la New Coke, discostandosi dalla ricetta originale e rilanciando il marchio attraverso una campagna promozionale di altissimo livello. In risposta a quella della Pepsi, che aveva ingaggiato figure di primo piano per pubblicizzare il proprio marchio.
Ora però non siamo negli anni Ottanta. E le pubblicità televisive hanno decisamente meno effetto sulla psiche dei consumatori, tartassati (e anche sfiancati) di annunci sui propri dispositivi mobili e in grado di utilizzare il proprio televisore collegandolo a piattaforme che di pubblicità non ne hanno nemmeno l’ombra. Per spiegare l’ascesa improvvisa di un prodotto, quindi, lo sguardo non può essere indirizzato che sull’online.
Magari con il video di un influencer che, nell’atto di bere una bibita in pochi secondi di filmato, si rende di fatto protagonista del suo lancio sul mercato. Meglio ancora se fosse una piattaforma di e-commerce, con una mirata strategia promozionale, a lanciarne il successo. Quello che sta accadendo alla Dr. Pepper, bibita popolare negli Stati Uniti ma pressoché sconosciuta in Italia. Il più classico dei soft drink, con un gusto fruttato e, sorpresa, addirittura più anziana della Coca-Cola, essendo stata distribuita per la prima volta nel 1885.
Distribuita principalmente nei Paesi anglofoni e comparsa brevemente in Italia proprio alla fine degli anni Ottanta, Dr. Pepper fa quasi una gara a sé. Non è una cola ma una soda, non fa parte di cocktail famosi ma macina da sempre l’unico fatturato in grado di rivaleggiare, realmente, con i due giganti Coca-Cola e Pepsi. Basti pensare che, dati Beverage Digest alla mano, il marchio Keurig Dr. Pepper gestisce il 25% del mercato delle soft drink. Trend peraltro in forte crescita nell’ultimo periodo. E che, paradossalmente, potrebbe addirittura iniziare a insidiare le prime due posizioni del podio in corrispondenza con un’attenzione sempre più marcata della Federal Trade Commission su entrambi i colossi del settore.
Secondo Politico, che riporta l’indiscrezione, l’antitrust americano avrebbe individuato una possibile politica di riguardo nei confronti dei grandi rivenditori, a discapito di quelli più piccoli. Strategia potenzialmente in contrasto con il Robinson-Patman Act, legge degli anni Trenta volta a tutelare i piccoli distributori. Niente più che un’indiscrezione al momento. Ma Dr. Pepper, con il suo nome vagamente beatlesiano, si tiene il suo mercato. E sbircia per la prima volta nel giardino dei frutti proibiti.