L’acqua delle tubature oggetto di contaminazione pluriennale. Sta accadendo in Veneto ma la Regione ha già disposto dei rimedi.
Il fenomeno della contaminazione delle acque, negli anni, ha stimolato l’immaginario collettivo soprattutto nell’ambito della finzione, letteraria o cinematografica.
Eppure si tratta tutt’altro che di un pericolo surreale (o irrealistico). L’intromissione di sostanze tossiche nelle falde dell’acqua potabile destinata alle reti idriche può avvenire in modi diversi, accrescendo il potenziale rischio per la salute umana. Del resto, anche se l’acqua del rubinetto non è la prediletta dei consumatori per l’utilizzo quotidiano, il contatto con essa è ben più frequente di quanto si pensi.
Non solo per il lavaggio mattutino ma anche per il risciacquo dei piatti e per tutte le piccole abitudini quotidiane che ne prevedono l’utilizzo. Tendenzialmente non dovrebbero esserci problemi di sorta: in quanto destinata all’uso continuo e giornaliero della cittadinanza, l’acqua che passa negli acquedotti è monitorata costantemente, affinché ai consumatori arrivi senza pericoli correlati.
Tuttavia, alcune sostanze possono sfuggire anche ai controlli più approfonditi (di recente è successo anche all’acqua minerale). E, addirittura, prolungare i suoi effetti per diversi anni. Uno di questi casi in realtà è ben noto e riguarda l’accumulo di PFAS, ossia una serie di sostanze tossiche (nell’ordine di decine di migliaia) che, in teoria, sarebbero vietate. L’enorme vastità, però, non ha permesso nemmeno alle Autorità sanitarie mondiali di riuscire a tracciarle tutte. Il punto è che una buona parte di queste sostanze possono effettivamente essere riscontrate a un’analisi delle acque, vista la loro presenza massiccia anche in oggetti come i vestiti, le tubature e addirittura le scatole degli alimenti o in quelle dei cosmetici.
Una situazione piuttosto paradossale, portata dalla combinazione dei vari fattori, sta interessando ormai da diverso tempo la regione Veneto. È l’acqua del rubinetto, in particolare, a preoccupare gli analisti, e di conseguenza le autorità. Anche perché il problema, secondo quanto è stato possibile determinare, la problematica si protrae ormai da circa quarant’anni, proprio a causa della contaminazione da parte di sostanze non degradabili, man mano accumulatesi nell’ambiente fino a interessare le falde acquifere. E, di conseguenza, l’acqua delle case. Al momento, secondo l’analisi effettuata, almeno 200 chilometri quadrati di territorio veneto si ritrovano all’interno della fastidiosa ragnatela, per una trentina di Comuni interessati fra le province di Padova, Verona e Vicenza.
Un inquinamento delle acque a tutti gli effetti, dovuto soprattutto agli scarichi industriali perdurati pressoché ininterrottamente negli ultimi quarant’anni o poco più. I quali hanno via via provocato un accumulo di sostanze nocive, anche a fronte di una normativa relativa non intervenuta immediatamente per contrastare questo tipo di inquinamento. Chiaramente, in un lasso di tempo simile, il problema ha finito per incancrenirsi, assumendo una dimensione perlomeno nazionale. Di recente, tuttavia, la Regione ha messo in atto una serie di interventi normativi volti a ridurre drasticamente la presenza delle PFAS nelle tubature. Oltre che disponendo un impianto specifico volto al monitoraggio dell’acqua. Una centrale idrica nella zona di Belfiore, in provincia di Verona, forte di 6 pozzi e 18 chilometri di tubature. Parallelamente, si lavora nell’incrementare il numero di sostanze proibite nei registri PFAS. Perlomeno in modo da prevenire altri casi simili.