“Squid Game” torna a far discutere. E stavolta per un’esperienza virtuale che permetterà a chi lo desidera di provare i “giochi” in realtà simulata.
L’impatto visivo a scapito del messaggio. Un trend che sembra prendere sempre più piede nell’ambito della comunicazione, in tutte le sue forme. Assoggettata alla forza delle immagini piuttosto che volta a fornire gli strumenti per leggere fra le righe.
Una tendenza che, forse, è frutto dell’evoluzione della nostra società. Più veloce, più soggetta a cambiamenti repentini. Tanto da dover lasciare l’imprinting visivo per prepararsi alle novità di un futuro sempre più prossimo anziché le chiavi di lettura del presente. Forse per questo ci emozioniamo a ripensare a ciò che ci ha accompagnato quando eravamo più giovani, magari con una tecnologia comunque a portata di mano ma ben categorizzabile. Con la sensazione che fosse l’uomo a gestire il progresso e non il contrario. Chi, ad esempio, non prova un’ambivalente sensazione a metà strada fra la nostalgia e l’appagamento quando si trova di fronte a un vecchio videogioco? Passatempi da prendere per ciò che erano, eppure in grado di lasciare una traccia come nessuna realtà simulata è in grado di fare. Perché il videogioco, in fondo, non ha bisogno di grafiche eccezionali per imprimere un segno nella storia.
Bisogna però fare i conti coi tempi che passano. E la realtà simulata, per fruire di un’esperienza effimera ma di sicuro impatto emozionale, ha il suo bel successo. Anche se il simulatore dovesse riguardare esperienze non esattamente da deboli di cuore. Qualcosa che potrebbe stupire, visto che la nostra società, tra pandemia e guerra, dovrebbe essere abbastanza satura di crisi e violenze. Ma forse, ora come ora l’emozione estrema diventa una sorta di forma di evasione. E persino contenuti di violenza esplicita, come la discussa serie coreana Squid Game, diventano potenziali fattori di sperimentazione del brivido. Magari con una consapevolezza più “matura”, questo sì, che di tecnologia si tratta e come tale va presa. Il tema di fondo però resta.
Squid Game, simulatore virtuale in arrivo: perché non è una buona idea
Di sicuro non c’era bisogno di Squid Game per dimostrare che una persona, allo stremo delle proprie energie e messa con le spalle al muro, può essere disposta a tutto per elevare la propria condizione sociale. Certo è che l’eliminazione al posto delle occasioni di recupero non sembra proprio il messaggio più indicato, specie in questo momento storico. A ogni modo, per quanto la discussione abbia animato l’opinione pubblica, il successo della serie è stato un dato di fatto. Tanto che persino alcune scuole avevano lamentato l’emulazione dei “giochi” della serie replicati con tanto di punizioni corporali al posto delle penitenze “classiche”. Certo, per questo un ruolo importante è giocato dal dialogo in famiglia, dall’insegnamento di un corretto discernimento tra ciò che è positivo è ciò che non lo è. La celebrità della serie, però, ha spinto qualcuno ad alzare ulteriormente l’asticella.
Un’intesa fra Gamebox e la stessa Netflix, che ha lanciato la serie tv, ha messo a punto un’esperienza virtuale che consentirà, a chi lo desidera, di cimentarsi a quattr’occhi con le scene di Squid Game, utilizzando un visore e la tecnica del motion tracking 3D con touch screen. In pratica, buona parte dei sensi verranno stimolati per superare i sei giochi previsti nell’arco di un’ora. Con la società che consiglia la partecipazione a un pubblico dai 16 anni in su, al modico prezzo di 24,99 dollari, massimo 40. Sì, perché al momento si parla di Stati Uniti e anche del Regno Unito, i primi che sperimenteranno la nuova estrema esperienza virtuale. Un progetto particolare che, forse, va letto in modo meno filosofico. Ma è pur vero che un’esperienza simile fatta su un sito archeologico o cose simili avrebbe lo stesso effetto. Senza violenza nei dintorni, nemmeno virtuale.