Chi ci guadagna dalla guerra? Nessuno, verrebbe da dire guardandosi intorno. In realtà, anche prima dei conflitti, il business bellico non cala i profitti.
L’invasione russa dell’Ucraina ha riportato alla mente vecchi fantasmi. Da tempo una guerra non bussava così repentinamente alle porte dell’Europa. Coinvolgendo peraltro la politica internazionale, in un conflitto che ha fatto vacillare le colonne dell’economia mondiale.
Il sentore comune, in fondo, è sempre stato questo. La guerra in Ucraina ha fatto risuonare vicini gli echi delle bombe, decisamente più di quanto non sia accaduto in Siria o continui ad accadere nello Yemen. Di mezzo, stavolta, c’è la stabilità dell’assetto finanziario globale, quella stabilità precaria che gli accordi economici hanno finora tenuto insieme. Una scacchiera sulla quale le pedine si muovono lentamente, assestando una mossa vera e propria solo a distanza di qualche tempo l’una dall’altra. Per questo, mentre sul campo si combatte e nei palazzi del potere si decide la strategia riparatoria, la cittadinanza europea fa i conti con gli effetti della crisi. La quale, per il momento, parla il linguaggio dei rincari e dell’inflazione.
Nessuno ha dimenticato che c’è una pandemia ancora in corso. Né che gli effetti della crisi innescata dal Covid siano ancora tangibili, anzi rafforzati dalla destabilizzazione portata dal conflitto in Ucraina. Una combinazione di fattori che ha portato a uno dei peggiori deficit finanziari del Dopoguerra, non solo in termini di criticità presenti ma anche potenziali. Questo perché, al netto di un’astensione dall’intervento militare diretto, i Paesi occidentali hanno scelto la via dell’isolazionismo economico della Russia, con effetti diretti sull’economia di Mosca ma, inevitabilmente, anche su quelle che poggiavano in buona parte sulle importazioni dall’Est (Ucraina compresa). Dei porti di Odessa bloccati si è parlato, così come della necessità di un’autosufficienza energetica. Il punto è che, con la guerra, finiscono per rimetterci tutti.
O quasi sempre. Perché, come spesso si dice, anche la guerra genera profitto. Con un occhio al passato, verrebbero alla mente esempi a riguardo circa l’aumento dei posti di lavoro ma tutti indirizzati all’ampliamento dell’industria pesante. E di mero sviluppo bellico. Tempi che sarebbe bene non riproporre, specie in un contesto di sofferenza globale come quello che può creare una pandemia. Sta di fatto che, come ben ricordato dal procuratore antimafia De Raho, è bene non abbassare la guardia. Perché il tempo per il business si trova, anche in tempo di guerra. Non serve però andare a cercarlo nell’illecito. Esistono contesti aziendali che, per loro natura, durante una fase di conflitto, specie se vi è coinvolta una grande potenza, aumentano il loro volume d’affari.
Un paio di esempi su tutti, purtroppo direttamente connessi agli sviluppi bellici. Il mercato dei mercenari e quello delle milizie private. Il primo, come riporta Il Sole 24 Ore, decisamente fuori dai ranghi del mercato ordinario, privo di una connotazione legislativa e con stime di guadagni per nulla precise. Anche se, per intenderci, il riferimento quantitativo non va al di sotto del miliardo. Al netto di cifre variabili, difficilmente verificabili, il dato più certo è che l’asticella dei guadagni si alza proporzionalmente all’intensificarsi del conflitto, qualunque esso sia e ovunque si trovi nel mondo. Stesso discorso per le milizie private. Ma un esempio valido è anche quello delle spese militari.
Dal 2000 a oggi, praticamente ogni Paese ha incrementato le spese per il settore. Gli Stati Uniti, ad esempio, hanno alzato la barra dai 320 miliardi di due decenni fa ai 754 miliardi attuali, pari al 10% del budget federale. Altre aziende rientrano nel “mercato della guerra”, indirizzando i loro investimenti sul settore della difesa e della sicurezza nazionale. Quindi anche delle armi. Secondo il gruppo di ricerca Freedonia, tali aziende sono destinate ad accrescere il loro business di almeno il 3,6% l’anno. Con fatturato da poco meno di 300 miliardi atteso nel 2024. Soldi scaturiti non solo dalle armi in sé, quanto dai meccanismi di difesa realizzati e utilizzati in ambito tech, dai droni ai robot fino agli strumenti di sicurezza virtuale. Perché le guerre del Duemilaventi, in fondo, si combattono anche sui canali digitali. E gli effetti possono essere ugualmente devastanti. In un modo o nell’altro, nel mirino finisce sempre la stabilità finanziaria. Vulnerabile sul campo quanto in rete.