La crisi energetica spinge il Governo verso la produzione di gas nazionale. Ma, accanto all’import da nuovi gasdotti, rispunta il carbone interno.
Probabilmente è vero che non si sa nulla di una guerra finché le sue mani di ferro non vengono a bussare alle nostre porte. Anzi, bastano quelle dei nostri vicini. Basta l’eco per incutere terrore.
Ed è vero, probabilmente, che ogni conflitto su larga scala è un passo indietro della civiltà. L’avanzamento tecnologico, declinato all’industria bellica, non può essere considerato un miglioramento. Specie quando ci costringe a regredire su tutti gli altri campi. La pandemia aveva avuto un suo impatto preciso, accartocciando i progressi economici fatti dopo la crisi del 2008 e imponendo una nuova ricostruzione dal basso. Tenendo ben presente i cambiamenti che, nel frattempo, il Covid aveva imposto a ognuno di noi.
L’implementazione tecnologica è stato il passo necessario per adeguarci al nuovo stile di vita, decisamente più incentrato sulla logica dello stay-at-home. Nel frattempo, l’Europa non ha rinunciato al suo desiderio di implementare la transizione ecologica, da sempre una delle prime voci del programma Von der Leyen.
Quello che non era previsto era proprio la crisi pandemica. Un crollo repentino dei consumi che, inevitabilmente, ha portato le autorità a rivedere in parte i propri piani. Anche se le risorse del Recovery Fund, destinato ai Paesi membri dell’Ue, richiedevano una partecipazione al programma sostenibile, attraverso la disposizione di incentivi per il processo di transizione tanto invocato da Bruxelles. Decisamente più complicato eseguirlo di fronte a una nuova flessione del tessuto occupazionale, probabilmente peggiore anche di quella del 2008. Un abbassamento degli standard che non ha fatto altro che aumentare la bolla della crisi, imponendo un nuovo tasso di inflazione e, soprattutto, una valanga di rincari. Soprattutto sui prezzi dell’energia.
Un primo antidoto a quella che, a tutti gli effetti, è diventata una crisi energetica, è stata la rimozione degli oneri di sistema dalle bollette. Troppo poco per colmare un gap che ha finito per interessare l’approvvigionamento stesso delle materie prime. Come se non bastasse, nel momento in cui si cercava di imbastire una parvenza di normalità, l’offensiva russa in territorio ucraino ha rimescolato il mazzo per l’ennesima volta. In ballo, stavolta, non c’è solo la fornitura energetica e gli accordi internazionali di collaborazione ma anche (ancora) delle vite umane. Le stesse che, se non toccate dalle bombe, potrebbero essere messe in ginocchio da una nuova ondata di prezzi alle stelle. Quelli che, inevitabilmente, finirebbero per salire all’inverosimile anche per i beni più comuni, qualora le risorse fossero ridotte tanto da lanciare i prezzi in orbita.
Per questo si cercano vie alternative. Anche per capire fino a che punto l’Europa, ma nello specifico l’Italia, possa fare a meno di una relazione con Mosca che, con l’imposizione di sanzioni, andrebbe a disgregarsi in un soffio di vento. Nelle scorse ore, il presidente del Consiglio Mario Draghi ha illustrato un primo programma di distacco dal metano russo. Per il nostro Paese, al momento, balla il 45% di fornitura energetica dalla Russia, cifra peraltro aumentata rispetto al 27% del decennio precedente. E’ chiaro che azzerare la dipendenza dal gas di Mosca da un giorno all’altro è tutt’altro che semplice. Il momento, però, si fa sempre più prossimo man mano che l’esercito russo guadagna terreno a Kiev.
E a questo punto, il rischio di riaccendere il carbone diventa una possibilità più che concreta. Alla faccia della transizione ecologica, la soluzione più ovvia sarebbe proprio quella di ridar vigore alle centrali che, in nome di questa logica, erano state silenziate. Al contempo, il piano di emergenza prevede anche una serie di regolamentazioni sui consumi del settore termoelettrico nel brevissimo periodo. Una riduzione di fatto, che si affiancherebbe alla necessità di ridar fiato al carbone per incrementare la produzione di gas nazionale e, magari, aprire all’import diversificato.
Sul tavolo ci sarebbe la possibilità di aprire al GNL americano e ai gasdotti che non passano o non vengono dalla Russia. L’ultima spallata al progetto Nord Stream 2 che, stando così le cose, andrebbe definitivamente in soffitta per l’Europa. Spazio (possibile) al Tap azero o al GreenStream dalla Libia, ma anche al TransMed dall’Algeria. Progetti che, da un iniziale scetticismo, potrebbero diventare la soluzione più logica, in attesa di un’autosufficienza energetica che avrebbe dovuto esserci già da tempo.