Da settimane si parla di una possibile invasione militare dell’Ucraina da parte di Mosca. In un mondo pieno di conflitti, stavolta l’impatto potrebbe essere anche per noi.
Solo pochi giorni fa, Papa Francesco ha consegnato un messaggio emblematico, che rispecchia alla perfezione il paradosso dei tempi che stiamo vivendo. Nonostante tutto, il mondo continua a farsi guerra.
Un concetto più volte ribadito dal Pontefice, anche nell’Angelus di domenica, con un invito sottinteso a riflettere prima di dare la parola alle armi. Il problema è che l’emergenza comune legata alla pandemia non sembra aver creato quella coesione che in qualche modo ci si aspettava. Non l’ha creata nella vita di tutti i giorni né, tantomeno, in seno alle dispute geopolitiche. L’impatto del Covid ha costretto a mettere alcuni dossier da parte, pronti per essere ritirati fuori alla prima occasione utile. Quanto sta accadendo al confine fra Russia e Ucraina è l’ennesima esasperazione di una tensione latente mai del tutto sopita. E le bombe sul Donec’k il nuovo rigurgito di quella che, solo sulla carta, viene definita una guerra a bassa intensità.
Un clima quasi da guerra fredda, con le potenze occidentali a ribadire progressivamente il rischio di una deriva verso l’irreparabile. Qualcuno ha ipotizzato persino lo scoppio di una terza guerra mondiale, dovuta alla possibilità che le forze Nato, in caso di invasione dell’Ucraina da parte della Russia, possano intervenire a loro volta. Un paradosso, appunto. Al culmine di due anni e mezzo in cui ogni Paese del mondo ha fatto la conta dei propri morti, limitando al contempo, per un certo periodo, la vita sociale di chi è rimasto. E ora, che la curva pandemica sembra in flessione, si torna già a parlare di rimettere in moto i tank.
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Un quadro fin troppo fosco. Ma che, in qualche modo, stavolta ci riguarda da vicino. Finora, la guerra in Donbass aveva solo sfiorato la nostra attenzione. Non più che i conflitti nel Sahel, nello Yemen, in Somalia o nel Darfur, per non parlare della Libia. Nemmeno in Europa si manca di dar fuoco alla polvere da sparo, come accaduto nel Nagorno Karabakh. Guerre latenti, combattute praticamente ogni giorno ma delle quali non arriva che il riflesso.
Nemmeno gli echi delle autobombe sembrano far più rumore nelle orecchie dell’Occidente e i nomi di al-Shaabab, Boko Haram o degli stessi talebani paiono quasi termini da giornale. In ballo, stavolta, c’è il timore che l’intervento militare di una potenza come la Russia in uno Stato sovrano possa scatenare un’escalation su scala nucleare. La stessa paura che cinse il mondo nella cortina di ferro durante la guerra fredda. Ma anche qui, si tratta di un timore riflesso. Quello vero riguarda l’impatto che un conflitto armato così vicino avrebbe sulle nostre vite.
E’ chiaro che, accanto al piano militare, in ballo c’è sempre una componente economica. La stessa che spaventa l’Unione europea. Il rischio principale sarebbe quello energetico, soprattutto per quanto riguarda la fornitura di gas. Un conflitto armato andrebbe a sconvolgere gli assetti economico-finanziari già estremamente precari, ancora tutt’altro che rinsaldati dopo la botta pandemica. Al primo colpo di cannone potrebbe scattare un nuovo stato di emergenza, per tutt’altre ragioni ma ugualmente nefasto per una normalità che sta provando con le unghie a riprendersi il suo posto.
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I fattori in campo sono difficilmente quantificabili, specie se in campo dovessero scendere anche gli Stati Uniti e altre potenze della Nato (della quale fa parte anche l’Italia). Un’estensione del conflitto significherebbe nuove restrizioni, innanzitutto sul fronte energetico, data la probabile chiusura dei rubinetti di metano dalla Russia. Senza contare la nuova emergenza profughi e la necessità di ridisegnare un assetto geostrategico in base al nuovo fallimento della diplomazia democratica. L’ennesima sconfitta in un mondo in cui il velo della pace sembra sempre troppo sottile.