Non è raro imbattersi in processi in cui viene richiesto l’utilizzo di Whatsapp come prova. Vediamo cosa prevede la giurisprudenza in questi casi
Whatsapp è uno strumento che ormai è parte integrante delle nostre vite e per questo può capitare che possa tornarci utile anche quando siamo di fronte a dei problemi con la legge. A tal proposito però i giudici sono piuttosto divisi e non tutti sono favorevoli ad utilizzarlo come prova.
Un esempio calzante è quello della sentenza della Commissione tributaria provinciale di Reggio Emilia. I giudici nel corso di una controversia fiscale hanno ritenuto non opportuno avvalersi di una conversazione avvenuta sulla nota app di messaggistica istantanea, che sarebbe potuta risultare decisiva ai fini della causa.
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In questo caso quindi non è stata riconosciuta una valenza probatoria visto che l’archiviazione di queste conversazioni avviene solo sullo specifico dispositivo. Non vengono memorizzati dalle compagnie telefoniche così come avviene per i normali sms.
Al contempo Whatsapp è ormai piuttosto in auge in diverse aule di tribunale, dove le chat vengono acquisite come atti del processo e sono a tutti gli effetti delle prove. Come è possibile questa duplice interpretazione? Semplice, perché allo stato attuale non esiste ancora una norma che ne regoli la validità.
Il codice civile non prevede chat e altri strumenti informatici e negli anni il legislatore non ha mai aggiornato la questione dovere. Il risultato è un vero e proprio caos in cui possono essere utilizzate come documento probatorio e allo stesso tempo tempo contestate in processo dall’avversario.
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Una tematica che merita certamente un approfondimento tempestivo, visto che la società moderna di fatto non può più prescindere da Whatsapp o strumenti affini come Telegram e Signal, che hanno avuto un vero e proprio boom nel corso del 2021.