In questi giorni non si sta parlando d’altro che del Decreto Dignità (numero 87/2018, recante “Disposizioni urgenti per la dignità dei lavoratori e delle imprese”). Politici, economisti e giornalisti ne stanno dibattendo parecchio perché questo testo, di fatto, va a modificare la normativa sul lavoro, con tutto ciò che potrebbe conseguirne in termini di maggiore o minore occupazione.
La nuova disciplina prevede che la durata del primo contratto a tempo determinato non possa superare più i 12 mesi, e che in questo primo anno di lavoro non sia obbligatorio, da parte dell’impresa, specificare la causale in virtù della quale quel rapporto di lavoro sta per nascere. Tuttavia il decreto ripristina la causale nel momento in cui il rapporto di lavoro dovesse essere superiore ai 12 mesi. In pratica, per i primi 12 mesi il datore di lavoro non è tenuto a specificare alcuna causale, mentre nelle eventuali proroghe, che non possono comunque essere superiori ad altri 12 mesi complessivi, la causale va specificata.
Per quanto riguarda le causali, il decreto ne ammette di due tipi: esigenze temporanee e oggettive, estranee all’ordinaria attività lavorativa o sostituzione di altri lavoratori; esigenze relative a incrementi temporanei e significativi, nonché non programmabili, dell’attività ordinaria. Tali causali non sono obbligatorie per i contratti di attività stagionali, che conservano la loro disciplina e che di fatto hanno già una loro specifica ragion d’essere nella tipologia di rapporto di lavoro a tempo determinato.
Come si è potuto evincere poc’anzi, un’altra modifica riguarda il tempo massimo in cui si può tenere sotto contratto a tempo determinato un lavoratore, che non è più di 36 mesi bensì di 24 mesi. Le stesse proroghe, inoltre, scendono da 5 a 4. Inoltre, per ciascun rinnovo le imprese sono tenute a versare uno 0,50% in più come contributo Naspi rispetto al già previsto 1,40%: i contratti a tempo determinato diventano così ulteriormente più costosi rispetto a quelli a tempo indeterminato.