Il ravvedimento operoso è uno strumento che il contribuente può utilizzare per rimettersi a pari con il Fisco, o meglio, per porre rimedio a dei ritardi che ha accumulato nel pagamento di alcuni balzelli fiscali. Ebbene, con l’ultima sentenza della Corte di Cassazione si è stabilito che d’ora in avanti il ravvedimento operoso, finora utilizzato in una determinata casistica, potrà essere applicato anche ai reati fiscali.
Ma cosa significa di preciso? In pratica l’Agenzia delle Entrate non accettava il ravvedimento operoso nel caso di fatture false: per il Fisco questo procedimento sarebbe potuto intervenire soltanto nel caso in cui il contribuente non avesse ancora presentato la dichiarazione IVA. Ma la Cassazione ha rotto questa interpretazione e sottolineato che il ravvedimento operoso possa essere applicato a fronte di qualsiasi reato fiscale.
La norma che regola il tutto, che risale all’anno 2000, in fondo dice che il patteggiamento può esser fatto se è stato interamente pagato il debito con il Fisco, comprese sanzioni e rispettivi interessi, e che possa essere utilizzato anche a seguito di procedure conciliative o di ravvedimento operoso. Detta in termini semplici si è stabilito che il ravvedimento operoso costituisce causa di non punibilità e che questo principio debba valere per tutti i reati fiscali enunciati nel dlgs 74/2000.
Ci sono insomma due interpretazioni: quella dell’Agenzia delle Entrate, che stabilisce che se una fattura resta solo emessa possa ancora essere corretta, e che la correzione non possa quindi valere una volta effettuata la dichiarazione IVA. E poi c’è l’interpretazione della Corte di Cassazione, secondo cui invece il ravvedimento può essere utilizzato anche dopo la dichiarazione IVA (anzi, il ravvedimento costituirebbe proprio lo step necessario per chiedere il patteggiamento in tribunale).
A questo punto resta da capire se la visione della Cassazione farà giurisprudenza con annesso recepimento da parte dell’Agenzia delle Entrate.